Pubblico impiego, aria di svolta: TFS accelerato, aumenti alleggeriti dalle tasse e premi più “pesanti” in busta
Dopo anni di attesa, rinvii e tensioni sindacali, la Legge di Bilancio 2026 porta sul tavolo del pubblico impiego una serie di misure che, se confermate, cambiano tre pilastri della vita economica dei dipendenti statali: #liquidazione, #contratti e #premi. Non si tratta solo di cifre: è un cambio di paradigma sulla dignità del lavoro pubblico.
Il nodo più doloroso — il TFS/TFR congelato per anni e corrisposto con lentezza esasperante — trova finalmente una via d’uscita. Grazie a una linea di credito dedicata tramite #CDP, l’INPS potrà anticipare fino a 50.000 euro entro 3 mesi dalla pensione. È una rivoluzione rispetto all’attuale labirinto di attese fino a cinque anni. Non nasce da un moto di generosità, ma da una precisa censura istituzionale: la Corte Costituzionale ha riconosciuto che ritardare la liquidazione viola il principio di giusta retribuzione, specie in una fase di vita in cui la persona è più fragile e ha bisogno di risorse reali, non promesse.
Questa riforma ha un effetto collaterale tutt’altro che marginale: finiscono i prestiti bancari sul TFS, finisce l’assurdo di pagare interessi su denaro già proprio. Dal 2027 la liquidazione non sarà più un debito del lavoratore verso il sistema, ma tornerà ad essere ciò che deve essere: la chiusura puntuale del patto di lavoro.
Sul fronte stipendiale, la manovra introduce due correttivi fiscali che vanno nella stessa direzione: premiare il lavoro e non l’attesa. I rinnovi contrattuali firmati nel 2025–26 per i redditi fino a 28.000 euro avranno detassazione al 5%: un beneficio concreto per gli stipendi bassi del comparto pubblico (ATA, assistenti amministrativi, enti locali, sanità di base, funzioni centrali). Non sarà retroattivo, ma partirà dal gennaio 2026.
Terzo tassello: il salario accessorio cambia peso. Premi di produttività e indennità, finora inghiottiti dall’IRPEF ordinaria fino al 43%, passeranno a tassazione simbolica all’1%. Significa che ciò che viene meritato lavorando arriverà davvero in tasca, e non si dissolverà in detrazioni e scaglioni. È un allineamento al privato, ma soprattutto un messaggio politico: la PA non è un corpo separato, ma parte del mercato del lavoro reale.
L’investimento complessivo — circa 550 milioni — non è cosmetico: ha anche un obiettivo macroeconomico dichiarato, riaccendere consumi interni dando ossigeno a chi vive di stipendio fisso e contrattato. Nei fatti, però, ha un significato più profondo: restituisce una quota di prevedibilità e rispetto a un settore da anni trattato come variabile di compensazione di bilanci pubblici rigidi.
Per la prima volta dopo molto tempo, le novità non chiedono un sacrificio ma riconoscono un diritto. Ed è esattamente questo lo spartiacque: non un premio a pioggia, ma un primo passo verso un principio semplice e dimenticato — lo Stato che lavora deve essere trattato dallo Stato come un creditore, non come un peso.



